VINI DI MONTAGNA, EROICHE ECCELLENZE
Le bottiglie nascono tra i terrazzamenti, tra i muri a pietra, in terreni con pendenze superiori al 35 per cento, in territori oltre i 500 metri sul livello del mare. Il futuro della produzione vitivinicola italiana è anche qui. Nelle aree montane del Paese, Alpi e Appennino. 500 produttori, oltre 1200 Comuni montani italiani coinvolti. Numeri che descrivono il valore quantitativo dei vini di montagna, a cui si unisce un valore qualitativo sempre più importante. I vini di montagna, tradizionalmente duri e aspri, oggi invece, grazie a un lavoro attento degli enologi tra i vigneti e tra le botti, rispondono perfettamente a nuove esigenze del mercato. Ma anche ai cambiamenti climatico-ambientali che impongono di riconsiderare zone fino ai ieri non vocate alla produzione. In pratica, si sale e si “va oltre” le dolci colline di Nebbiolo e Amarone. La viticoltura diventa “più eroica”. Fino anche a mille metri di altitudine con quel “vino del ghiaccio” della Val di Susa: i grappoli vengono raccolti sotto le prime nevi, quando l’autunno cede il passo all’inverno.
La montagna prova anche in questo campo a costruire nuovi percorsi e saperi. Perché in un prodotto di cantina ci sono valori ed esperienze che si trasformano in qualità del vino. Se non possiamo essere uguali, possiamo essere migliori. È questo un leitmotiv che serpeggia tra i produttori, dalla Valle d’Aosta alla Calabria, passando per Alto Adige, Piemonte, Emilia Romagna. Tutte le Regioni hanno ormai un’attenzione crescente per le Terre Alte, per quei produttori che ogni giorno salgono a piedi, senza molti mezzi meccanici tra le vigne terrazzate e in forte pendenza. Poche bottiglie, alta qualità, grande valore per il territorio: terrazzamenti, piccoli fazzoletti di terra tra i muri a pietra con un secolo e mezzo di storia, strappati all’incuria e all’abbandono.
I vini di montagna presentano caratteri di qualità del tutto particolari, per la ricchezza di sfumature, l’equilibrio tra vista e olfatto, il gusto spesso sorprendente perché tutt’altro che omologato. I produttori conservano gelosamente frammenti di terra coltivabile abbarbicati sulla roccia, ricchi di una storia enoica che non ha nulla a che fare con il calcolo, il mercato, la convenienza. Parlare di vino di montagna oggi significa essere in linea con le più attuali richieste dei consumatori, in termini di qualità, storia e legame con il territorio. «Recuperare piccole porzioni di versante – spiega Danilo Breusa, primo cittadino di Pomaretto, in Val Chisone – fa bene a tutto il territorio. Produciamo poche bottiglie forse, ma le vendiamo tutte. E abbiamo creato dei posti di lavoro. Questa è la montagna che vogliamo, quella che vince».
Proprio così. Uniti in un’unica direzione, il mondo accademico, gli enti locali, i produttori, più o meno giovani. «Il vino può essere il volano di una nuova economia montagna – spiega Vincenzo Gerbi, docente alla Facoltà di Agraria dell’Università di Torino – Questi vitigni possono incontrare un segmento di mercato particolare dove il consumatore che per la prima volta compra per curiosità, poi si lascia conquistare dalla passione. Oggi il vino di montagna si fa moltiplicando i vitigni autoctoni e infrastrutturando un sistema che dia servizi alla viticoltura. È certo che nel supporto ai produttori, non si può impostare un protocollo di sostegno uguale a quello di collina. Serve un vero progetto, affinché il vino abbia successo. Il vino si sceglie per piacere, nasce da un progetto di design che va costruito con elementi forti».
Michele Fino, docente all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, da otto anni è impegnato nella promozione dei vini di montagna. Nel tempo libero, tra una lezione e una sessione di laurea, produce le sue bottiglie che vende sul mercato internazionale. Con grandi soddisfazioni. «Cosa serve oggi ai vignaioli di montagna? Un provvedimento per eliminare la burocrazia. Questo è necessario per i veri vignaioli, della vera montagna», insiste Fino. Il professore fa riferimento alla possibilità di escludere la montagna dai diritti di reimpianto e ad altre azioni concrete. «C’è una burocrazia inutile – prosegue Fino – che va eliminata. Il lavoro culturale avviato da molte università italiane e da moltissimi Comuni con i loro produttori, fa sicuramente crescere la pressione su chi ha possibilità di intervento. Togliere la burocrazia permetterebbe ai viticoltori di montagna di pensare maggiormente alle loro produzioni e alle iniziative per promuovere i loro vini, facendo uscire dal Piemonte e dall’Italia un settore in forte crescita capace di conquistare nuove aree di mercato».
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