VIVERE LA MONTAGNA. CITTA’ NUOVA GUARDA AI TERRITORI
Si intitola “Vivere la montagna” ed è il nuovo libro di Paolo Crepaz per Città Nuova dedicato ai territori. Dove Paolo vive con Lucia e una bella famiglia.
Il testo è in vendita qui: https://www.cittanuova.it/libri/9788831123280/vivere-la-montagna/
Paolo mi ha trasmesso mesi fa, in fase di stesura del testo, una serie di domande. Alle quali ho risposto e che ripropongo qui.
Nel libro Paolo ha ampiamente citato riflessioni e sfide.
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Quali sono oggi (molto in sintesi, si capisce) le maggiori criticità dei territori di montagna? Ci sono differenze fra una regione e l’altra?
Le aree montane italiane rappresentano il 54% della superficie italiana. Ma se togliamo le aree metropolitane, le “cento grandi città” del Paese, i capoluoghi, arriviamo all’83% di territori rurali, montani, interni, a bassa densità di popolazione. Ci vivono, nell’area alpina e appenninica, oltre 6 milioni di persone e arriviamo al 15% di PIL del Paese. Le aree montane hanno nell’articolo 44 della Costituzione, secondo comma, un punto fermo, e proprio la Carta Costituzionale prevede misure specifiche che la legge deve mettere in campo. Dalla prima legge del 1952 sulle aree montane arriviamo fino alla legge 97 del 1994, l’ultima interamente dedicata alla montagna. Poi ci sono diverse Regioni italiane che hanno specifiche leggi, con investimenti e stanziamenti economici annuali. Da diversi anni, Governi e Parlamenti provano a montare una nuova legge nazionale sulla montagna, ancora senza risultati. Negli ultimi 15 anni, molteplici regioni hanno smontato il sistema istituzionale che contava, fino al 2010 circa 350 Comunità montane. In molte Regioni sono state trasformare in “Unioni montane di Comuni” puntando su due necessità parallele e intrecciate: riorganizzare i servizi pubblici e garantire politiche di sviluppo sociale ed economiche ai territori.
Quali sono le priorità o le linee guida per valorizzare questi territori?
Sviluppo e servizi corrono paralleli. Rispetto ai servizi, occorre – dando forma all’articolo 44 della Costituzione – organizzare in modo peculiare scuole e formazione, trasporti e mobilità, sanità e assistenza. Sviluppo vuol dire porre le aree montane quali aree ove sono presenti i grandi beni collettivi del Paese. Le foreste ad esempio, che in Italia rappresentano un terzo della superficie, per le quali sono sempre mancate politiche di investimento, tutela, protezione e stimoli per la produzione. Ma anche l’acqua, che ha i grandi bacini, sia naturali sia artificiali, nelle aree montane. Lo stesso bene climatico è un enorme risorsa per la montagna e non solo. Valorizzare i beni naturali, stoccati e protetti nelle aree montane, vuol dire relazione, vuol dire esaltare i servizi ecosistemici-ambientali che queste risorse erogano. Non solo per le aree montane: proteggere e valorizzare foreste e acqua significa garantire beni alle aree urbane, alle collettività. La montagna soffre prima di altri territori del cambiamento climatico, ed è il cuore di una nuova green economy. Questa nuova economia, basata su un utilizzo consapevole delle risorse naturali fa si che le comunità sono protagoniste nella valorizzazione dei beni collettivi. Non più espropriate delle risorse – come successo per l’acqua con l’idroelettrico – bensì attive e mobilitate nel quadro di una sostenibilità che va ogni giorno costruita. Un patto tra aree urbane e aree montane è un accordo istituzionale, per dare ad esempio ai Comuni la forza di lavorare insieme, piccoli e grandi, per definire politiche pubbliche, riorganizzare i servizi, valorizzare i beni naturali, superare sperequazioni e disuguaglianze. Se la green economy è il cuore di una nuova economia più giusta e inclusiva, la prospettiva “smart” ovvero l’innovazione è l’asse per superare quelle sperequazioni che stanno crescendo tra aree urbane e montane. Innovazione vuol dire piena accessibilità tecnologica delle comunità, con internet ad alta velocità ad esempio – che manca in troppi territori -, servizi per la telefonia mobile, garanzia di segnale e opportunità digitali per tutti i cittadini.
Agricoltura, pastorizia e turismo di montagna: quali prospettive?
Senza agricoltura, cura dei versanti, paesaggio, non vi è turismo. Non è al contrario e su questo serve una attenta riflessione. Non vi è turismo senza agricoltura, zootecnia, pastorizia, ma anche gestione e pianificazione forestale. Su questi temi, la Politica agricola comunitaria non sempre ha favorito l’innovazione. Il conservatorismo punta su “indennità compensative” per chi porta mandrie e animali in montagna anche per brevi periodi dell’anno. La possibilità invece di agevolare imprese che 365 giorni l’anno investono su agricoltura e allevamento di qualità nelle aree montane è perseguita solo in parte e su base di volontà regionali. Occorre cambiare paradigma. A partire dalla necessità di una riorganizzazione fondiaria, con una vera ricomposizione, come la Francia ad esempio ha fatto vent’anni fa. Non mancano le “buone pratiche”, ma come sempre deve avvenire, queste devono trasformarsi in politiche, ovvero in soluzioni stabili, scelte certe a vantaggio delle imprese. Il cambiamento climatico, nella sua tragedia – come la chiama il Papa – ricolloca alcuni territori. E così, proprio le aree montane sono spazio e luogo di nuova economia. I territori montani ove vi sono imprese agricole che gestiscono prati, foreste, pascoli, territori vitati, coltivati, hanno versanti stabili, meno esposti a frane e a dissesto. Questo ruolo “ecosistemico” delle imprese agricole deve essere riconosciuto dalla PAC e da altre politiche comunitarie e nazionali. Investire per evitare riduzione della superficie agricola utilizzabile (SAU) piuttosto che per evitare che il bosco di invasione faccia contrarre le superfici a prato-pascolo deve essere incentivato. Mentre oggi, troppo spesso, tutto è lasciato alla libera facoltà delle imprese e le scelte politiche non agevolano l’utilizzo di incolti o il superamento della parcellizzazione. Mentre nelle aree di pianura sono state compiute molte innovazioni, le aree montane restano più fragili con modelli agricoli e dell’allevamento non certo a prova di futuro. Sulle foreste ad esempio, per troppi anni, l’Italia non si è accorta di essere un Paese forestale: abbiamo 12 milioni di ettari di bosco, un terzo della superficie. Ma fino al 2019 non avevamo neanche una legge nazionale sul bosco, che stabilisse cosa fosse e cosa farne. Mancano segherie e lavorazioni primarie, quando invece siamo i migliori e massimi produttori ed esportatori di mobili. Il 95% del legno che utilizziamo proviene dell’estero, e con tragedie come Vaia, abbiamo visto imprese di altri Paesi alpini prelevare e comprare il legname caduto, lavorarlo all’estero e rivendercelo. Controsensi sui quali intervenire con “politiche”, attuando legge forestale e Strategia forestale nazionale (la prima e unica dal 1946 è del 2022!) e favorendo formazione di giovani e nuove imprese lungo la filiera.
Qual è il valore specifico del mettere in rete comuni, comunità ed enti montani? In che modo queste comunità hanno contribuito e contribuiscono al paesaggio montano?
È fondamentale i Comuni, grandi e piccoli lavorino insieme. Il sistema istituzionale del Paese è finora troppo fragile, si è indebolito con tagli e con scelte che hanno ridotto la rappresentanza dei territori. Molte Regioni hanno chiuso le Comunità montane e nulla hanno ricreato affinché i Comuni, piccoli e grandi, possano fare insieme scelte, definire politiche, agire sul futuro insieme. Certo questa unità comporta rinunce, dialogo, intese e solo apparentemente riduce la democrazia. Gli 8000 Comuni italiani sono un patrimonio decisivo della nostra storia. Ma abbiamo imparato, almeno per le imprese e il terzo settore, che nessuno si salva da solo. Le comunità che lavorano insieme sono forti e a prova di futuro. Questo vale anche per gli Enti locali. Ma la Politica, Governi e Regioni, hanno paura a dirlo, a forzare su questo. Dà più consenso lasciare un po’ di risorse a tutti, far fare tutto a tutti. Mentre lavorando insieme occorre organizzazione, managerialità, scelte condivise. Nelle valli alpine e appenniniche questo percorso ha una storia, nelle Comunità montane nate nel 1973. Non si improvvisa, ma un percorso tracciato c’è. Altri Paesi UE come Francia e Germania hanno riorganizzato il tessuto istituzionale e anche l’Italia, per potenziare il sistema oggi fragile, deve partire da lì. Comuni insieme, intercomunalità, oltre ogni logica municipalista e campanilista. Vinciamo la “solitudine dei sindaci”, che è una vera emergenza, aiutiamoli a lavorare insieme. Facciamo in modo che le norme e gli investimenti, compresi i bandi pubblici, facilitino questo lavoro insieme che li lascia meno soli. Decidere insieme è più difficile, ma insieme si è meno fragili.
Alcuni territori di montagna vengono oggi abbandonati, altri vengono valorizzati, spesso a fatica: c’è un contributo specifico che possono dare i cittadini di montagna per conservare e valorizzare il territorio?
Ogni territorio, ogni area geografica, dunque più Comuni insieme, devono trovare una vocazione. Ogni pezzo di territorio montano ha diversa e peculiare storia e cultura. Il lavoro insieme tra Comuni non può prescindere dall’azione insieme con imprese, terzo settore, associazioni del territorio, cittadini. Trovare nuove forme di coinvolgimento è necessario e aiuta la democrazia. Il patto eletto-elettore si fa solo credendo in percorsi di interazione, di ascolto, di dialogo. È difficile e non basta parlare di bilancio partecipato, o coprogrammazione. Vanno di moda ma nei piccoli Comuni in particolare non basta. In particolare nelle realtà più piccole, ove ci si conosce tutti, servono strumenti di interazione costante, istituzionalizzati e non. Le barriere tra Comuni, per i cittadini, sono cadute. Le valli non hanno limitazioni amministrative che tengano. Prevalgono le geografie e queste sono “aperte”. Perché Alpi e Appennini sono sistemi aperti. Luoghi turistici certo, ma soprattutto luoghi dove si può vivere e lavorare. Questo approccio è comune a chi abita ai territori, ma non a chi li frequenta abitualmente. Le aree montane italiane sono molto diverse da altre aree montane europee o dai versanti esteri delle Alpi. Lì i territori sono i luoghi del riposo e del relax, del turismo e del loisir. In Italia, Alpi e Appennini sono distretti produttivi, parchi naturali con dentro paesi, distretti manifatturieri, innovazione. Pensiamo al Gran Sasso Science Institute, al Distretto dell’occhialeria del bellunese, ma anche all’idroelettrico in gran parte delle Alpi. Come questo modello produttivo resta a beneficio del territorio, non passa solo dalla creazione e dal mantenimento di posti di lavoro. Passa dalla gemmazione, dall’evoluzione con nuove forme che interagiscono con le comunità, con nuovo welfare, start up che nascono e tengono in vita la montagna. Pensiamo al terremoto, ai sismi del 2009 e del 2016 che hanno accelerato processi di spopolamento e abbandono, ma anche aperto la via e nuove forme di lavoro tra Comuni, tra imprese, a filiere produttive nel campo delle rinnovabili e dell’enogastronomia che, non delocalizzabili, sono cresciute in Appennino. Appennino che peraltro è luogo produttivo, ma accanto alle aziende (in cinque, dieci chilometri di raggio) vi sono i bacini delle risorse naturali, ovvero le università, i distretti culturali e monumenti, parchi naturali con paesi e persone che ci vivono dentro. È un Appennino “parco naturale d’Europa” ma non certo sotto una campana di vetro, né oggi né ieri! È Appennino-vivo che attira e deve attirare nuove forze, nuovi giovani, imprenditori, far restare chi c’è e far arrivare nuove persone. In questo scambio, stanno i “flussi” lungo le valli, nelle geografie montane. È nella forza di chi arriva, che porta capitali, idee, nuove culture, che incrocia e tocca chi già c’è che Alpi e Appennini sono aperti – come il Monte Rosa con i Walser 800 anni – fa. Come oggi con nuove migrazioni, non solo dall’Africa, ma anche dalle aree urbane. Un sistema aperto, di “ritorno”, di arrivi e partenze, ma soprattutto di comunità nuove e vive, con nuovi e autoctoni che provano e vincono la sfida del “camminare insieme”. Non mancano esempi virtuosi. Dossena in Val Brembana, Ostana in Valle Po, Gagliano Aterno in Abruzzo, Treia nelle Marche, Sante Marie e Fontecchio in Abruzzo, Santu Lussurgiu in Sardegna. Comuni dove sono arrivati nuovi abitanti che hanno interagito fortemente con chi ci vive da sempre. Comunità di fatto nuove, che cambiano. E tra cinquant’anni, guardando indietro ai territori, mentre la popolazione italiana sarà diminuita, non potremo dire “ma come mai avete lasciato tutti quei vuoti”. Non dovremo dirlo. Non potremo e non possiamo oggi lasciare questi vuoti. Che possono riempirsi con politiche, scelte dall’alto e comunità dal basso che sono aperte e inclusive.
Cosa significa stringere “un nuovo patto fra aree urbane ed aree montane”?
È il patto tra comunità, tra geografie, tra sistemi territoriali. La città che corre veloce, che investe, che usa centri di ricerca. La montagna che rischia di avere meno, meno risorse economiche, meno servizi. Non bastano le politiche pubbliche e la spesa pubblica da alzare. Non basta un’assistenzialismo questuante che abbiamo, spero, consegnato al passato. La montagna non vive di un “gap geografico permanente”. Ha opportunità di sviluppo che devono essere accompagnate con managerialità. I Sindaci sono i primi attori, non da soli. Nel ricomporre un tessuto istituzionale chiaro e duraturo, a prova di futuro, il Paese riparte dalle geografie: dai flussi che si muovono dalle aree urbane verso le aree montane e viceversa. I Comuni grandi e piccoli che interagiscono, lavorano insieme, decidono insieme, definiscono gli investimenti, si azionano congiuntamente e interagiscono stabilmente. La geografia italiana è montata su valli, lavoro comune da monte a valle. Per il quale serve un nuovo patto, che lasci nessuno indietro, colmi sperequazioni. Sui servizi in primis, sullo sviluppo sociale ed economico.
Cosa ti sentiresti di suggerire a chi viene in montagna per trovare divertimento e riposo? Con che atteggiamento porsi per cogliere il valore e la bellezza di questa esperienza? Come aiutarli ad entrare in contatto con la cultura e la tradizione della gente di montagna?
Guardare ai territori montani non come luogo dove divertirsi e passare giorni di svago, relax, divertimento. Non solo tutto questo. La montagna è paesi e comunità. Non sono borghi sotto una campana di vetro, non sono paesi turistici che vivono di retorica e di tradizioni passatiste. Luoghi vivi di azione, di negozi e bar, di persone che hanno fatto una scelta e altre che la vogliono fare. Si interagisce con la comunità conoscendola, non vivendola come orpello al desiderio altrui di svago e relax. La montagna quale luogo vivo, dove quelle risorse naturali delle quali godiamo hanno bisogno di un governo, di essere governate, di autonomie amministrative in relazione tra loro, di Comuni e di paesi che fanno il Paese. Chi va sui territori, anche solo per camminare un giorno, non porti tutto da casa. Pensi che un acquisto di tre panini, formaggio e prosciutto in quel negozio di quel paese, “salva” la comunità, dà ossigeno e contribuisce alla crescita di quel territorio che sarà meno povero e meno debole, meno a rischio desertificazione e abbandono. È un approccio culturale diverso ai territori montani. C’è la bellezza? Certo. La salubrità? Certo. Ma ci sono anche comunità che lavorano per salvaguardare filiere, per avere norme ad hoc per rafforzare i servizi pubblici, dagli asili agli ospedali, al trasporto a chiamata, ci sono comunità che sono lì ad agire, presidio a beneficio di tutti.
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