COMUNI, RIPENSARSI È UN PROBLEMA?

Dunque, o qualcuno non ci pensa apposta, per non disturbarsi e non togliersi dal solito, oppure c’è un sistema di autonomie locali locali che è entrato in “bisogno di pensiero” e non sa bene cosa sia e cosa possa essere ancora. Nel bel mezzo di una discussione tutta politica – politicizzata – sull’autonomia differenziata regionale (ripartita tre anni fa), è giusto fare qualche riflessioni.

Pensiero. Vuol dire immaginare percorsi. Lontani da chi dice e pensa o non dice che la Politica sia solo concretezza (finanziamenti, decisioni, leggi ecc ecc). Pensiero e dialogo. Capire insieme dove si sta andando e cosa fare. Immateriale ragionamento. Lo sappiamo ancora fare?! Argomentare? Analizzare? Domande, risposte, dubbi. Analisi, dati. Vale anche per le Amministrazioni comunali, per gli Enti locali, per Sindaci e Amministratori. Alla scuola del dialogo. Alla scuola della Comunione, si diceva. Anche per il futuro degli Enti locali. Un “Sinodo dei territori”, un “Sinodo degli Enti locali”, come il “Sinodo della Chiesa”. Analogie, tante, l’ho detto anche qualche sera fa ricordando un grande pianificatore e diacono, Osvaldo Piacentini. Ragionare del futuro. Confrontarsi. Proviamo.

Partendo da chi ci sta più vicino.

Partiamo da Torino. Molto se ne è scritto, anche con un preciso dossier.

Torino sceglie la “terza via” e prova a pensare a quello che è e diventa. Sempre più piccola (860mila abitanti), scriveva Diego Longhin su Repubblica il 2 gennaio, sempre più povera. Periferie sempre più periferiche, ZTL che al netto di chi vorrebbe ampliarla, diventa sempre più ristretta. Eppure Repubblica ha il merito di aver generato un bel dibattito su cosa può ancora essere la città, se non si chiude nelle sue mura. Prima Longhin e i dati sulla popolazione al 31.12. Poi la mia considerazione sulle dimensioni della città. Poi Francesco Tresso, Assessore. Il Sindaco di Moncalieri Montagna (nome, programma), e tanti commenti, come quello di Gianna Pentenero, Jacopo Suppo, Fabio Carosso, Alberto Avetta. Con la “saga Ratzinger-Georg” e lo scontro vero o presunto progressisti-conservatori nella Chiesa, e il dibattito aperto dall’adorazione del Dio-bambino nel pezzo di Natale sulla Stampa di Murgia, di certo questo dibattito sulle colonne di Repubblica su demografia e servizi ai cittadini, è tra le buone e importanti cose scritte e lette in questo inizio d’anno. Aggiungiamoci pure – sui giornali e non solo,  buon giornalismo – la non banale questione della tragedia climatica, che anche Uncem ha provato ad analizzare nelle conseguenze per sci e turismo. Un fronte intrecciato con l’altro, demografia e servizi. Se è vero, ed è vero che spopolamento, migrazioni, giustizia sociale e cambiamenti climatici sono intrecciati come la “Laudato Si” inquadra alla perfezione”.

Giornalismo che fa, oltre che dire, che va oltre il bar e crea analisi. Ben fatto.

Ma andiamo con ordine.


Torino non si fonde

Intervistati giorni fa da Repubblica, Tresso e Montagna dicono no a una fusione tra Torino e i Comuni della prima cintura urbana.

È vero, ci sta. Tutto difficile, da invertire, da cambiare radicalmente. Come è vero che i quartieri, le città, i confini amministrativi si compenetrano da almeno 50 anni. La costruzione di una serie di palazzi, di spazi urbani, ha cambiato le geografie, h di fatto unito Settimo con Torino, e poi Venaria, Collegno, Grugliasco, Rivoli, e via così fino a Moncalieri e Trofarello. Uniti urbanisticamente, senza forse che l’urbanistica abbia interpretato fino in fondo le conseguenze di PEC e costruito.

Certo, fondere i Comuni con i procedimenti di fusione – referendum, legge regionale e quant’altro – ha notevole complicazioni amministrative. Le grandi Città italiane non hanno mai tentato strade del genere per ripensare come le zone metropolitane stanno insieme. Le grandi Città italiane – che io sappia – non sono andate verso la fusione dei grandi centri con le Città-satellite limitrofe. Errore o no, ciascuna, pur senza alcun cambio di scenario superando i confini (dentro un cortile di un condominio, può succedere) amministrativi, non ricordo fusioni tra grandi Città delle aree più urbanizzate. Manco a Napoli, capoluogo meridionale con una delle più alte densità di abitanti – la Città e le Città limitrofe, fin giù alla Costiera amalfitana e alla Penisola sorrentina – del mondo.

Si sta da soli, sul piano amministrativo, si sta insieme di fatto nell’urbano. Si sta divisi nei servizi e nelle scelte. 

Per sempre?!

Se Torino esclude la fusione del capoluogo con altri Comuni di grandi dimensioni limitrofe, allora escludiamo di conseguenze le fusioni imposte per i piccoli Comuni.

Diciamolo. Non lo fa Torino?! E perché dovrebbero farlo altri, con un’imposizione? Per scelta, ma non per forza. Vale per tutti.

Eppure serpeggia, ritorna, quella idea per la quale i piccoli devono per forza non essere, mentre i grandi possono restare, anche se fusi di fatto, non fusi. Mah.

Anni fa era stato Piero Fassino (sindaco di Torino) a dire che i Comuni con meno di 15mila abitanti sarebbero stati tutti da fondere. In Italia. Non sapeva bene di cosa stesse parlando e la prima nostra risposta era stata “lo faccia Torino con le altre grandi città che la circondano, della prima cintura”. Parti tu. Se Torino oggi, come allora, dice di non volerlo fare, che non è necessario, che non è in grado politicamente di gestirlo, allora esponenti politici di tutti gli schieramenti evitino di dire che le fusioni sono positive per i piccoli Comuni. Basta dirlo con fare sfacciato, con aggressività, quale soluzione per tutti i problemi delle Autonomie e della spesa pubblica. Gli affronti non servono.

Diciamolo. È piuttosto difficile e anomalo sostenere che il senso di appartenenza e di cittadinanza in un Comune come Moncalieri, cambi se il riferimento amministrativo diventa invece la Città di Torino. Cambierebbe di fatto poco o nulla per i residenti. Molti sono immigrati negli ultimi trent’anni. Molti manco sono mai entrati in Municipio, a Torino o a Venaria o a Collegno. Con una fusione delle grandi Città, ambierebbe proprio poco in termini di appartenenza, storia, cultura, servizi ai quali accedere. Una questione culturale che entra in un’evoluzione? Difficile da provare. Nei Comuni più piccoli, senso comunitario e riferimenti storici hanno mantenuto maggiore senso e forza. Non così nelle grandi città, vuoi per migrazioni o perdita dei riferimenti istituzionali in ogni direzione e luogo. Ma le analisi sociologiche si sprecano.

Il punto è fondere. E nella fusione, Torino e i grandi Comuni della prima Cintura (oltre 1,2 milioni di abitanti) non ci stanno.

Obbligati, non ci stanno manco i piccoli. Per volontà loro, sì. Obbligati, provocati da qualche politico di turno che non sa cosa dire, non ci stanno.

Fusioni senza obbligo. Chi assimila obbligo a incentivo, non ha capito il significato dei due termini probabilmente.

Se fondere non si può e non si vuole, ripensare chi fa che cosa e come i Comuni stanno insieme ha invece molto senso.


Come stiamo insieme

Uncem sostiene da tempo che la vera trasformazione istituzionale del Paese la può fare una nuova organizzazione istituzionale che parta dalle Regioni, trasformandole e arrivi fino ai Comuni. In mezzo, una miriade di Enti, tanti, buoni, preziosi, che si ripensano e vanno riorganizzati. Con leggi e norme, derivanti da una visione. Si è partiti nelle trasformazioni a pezzi, negli ultimi vent’anni, e poco è successo. Di buono. Attuare il titolo V della Costituzione, tutto e non a piacimento, significa ridefinire prima di tutto cosa sono le Regioni e quante sono. Cosa fanno, come stanno nello Stato unitario, quali compiti, quali politici e quali dirigenti. Cosa sono le Regioni e perché ci sono. Sono troppe? Sono tante? Hanno compiti adeguati e risorse conseguenti? E poi Province, Città metropolitane, Comuni. Sono ancora necessarie 20 Regione e Province autonome? Come lavorano insieme 8000 Comuni? Cosa fanno e quante sono le Province? 120 o 70?

Domande, tantissime. Risposte, ognuno metta la sua. Provi, almeno. Nel confronto e nel dialogo, si diceva.

Nell’ultimo Festival delle Regioni a Milano, prima edizione a Palazzo Lombardia, nei tavoli tematici sul tema istituzionale, con venti persone al tavolo, su questi fronti emergevano più di venti idee diverse. Normale, certo. Opinioni diverse, che cambiano, si sagomano e si modificano nel divenire del discorso. Giusto o sbagliato che sia, servono sintesi che seguano a luoghi di condivisione.

Eppure io una certezza ce l’ho. Senza demagogia, senza semplificazioni.

Comuni insieme. Al lavoro insieme. Insieme per le comunità, i cittadini, le imprese, le PA. È una urgenza. Per i piccoli e per i grandi. Per i piccoli è imprescindibile. Per i grandi, Torino, compreso, lo è di più.

I Comuni non sono tutti uguali. Anche su questo le riflessioni possono essere articolate e c’è chi le ha fatte molto meglio. Non sono tutti uguali, sul piano amministrativo e politico. Pensarlo e intenderlo, storpia ogni ragionamento sul futuro. Sono diversi e tutti difficili, ma diversi e articolati.

Inciso. Per dire con chiarezza – guai a non farlo o a girarsi dall’altra parte o a farne chiacchiericcio – che almeno mille Comuni in Italia, per mancanza di personale, per mancanza di volontà o per mille e un motivo, affidano tutto “fuori”. Tutti i servizi, le funzioni. Dentro hanno niente, o poco. Dentro il municipio ci sono armadi e scrivanie. Ma tutto viene fatto all’esterno, da personale non dell’Ente, da società specializzate. Brave non istituzionali. Affidato in appalto. Tutto secondo norma vigente, ci mancherebbe. Tutto – dal bilancio alla pianificazione urbanistica – a uffici esterni di studi esterni.

Hanno ancora senso Comuni così? In molte valli piemontesi sono tanti, quelli che sono vuoti e fanno fare tutto o quasi fuori. Fanno le fortune di studi e agenzie esterne, e quando si pone il tema istituzionale, molti rappresentanti istituzionali (non i Sindaci, che sanno) anche dei Ministeri fanno finta di non sapere, inconsapevoli di fronte a un’evidenza che vede in crisi il sistema di tanti piccoli Enti sparsi nelle valli. Non già per colpa loro, per mille fattori loro esterni certo, giustificabili, criticabili, politicamente storici, ma il risultato, politico e tecnico, è drammatico. Tutto all’esterno. Nessuno in ufficio, ma tutto all’esterno a studi e “centri di smistamento” di idee e numeri. Che fanno bilanci, PRG, mandati, delibere, documenti vari, dal DUP al Piano di Protezione civile.

Anche ai Segretari comunali – professione da ripensare, lo dico da molto tempo – forse va bene così. Tengono il ruolo, la “cattedra”, lo scavalco, il titolo, sanno che tutto viene fatto all’esterno degli uffici. Firma il Sindaco. [Del dibattito sull’abuso di ufficio di questi giorni, va ricordato che è stato cambiato, il reato, almeno 4 o 5 anni negli ultimi anni, su spinta anche dei Sindaci, con risultati non sempre buoni o risolutivo. Abolirlo, o derubricare gran parte delle fattispecie, è probabilmente l’unica soluzione sostenibile].

Ma torniamo ai Comuni. Che devono lavorare insieme. Lo vogliano i Sindaci e anche i Segretari comunali. Insieme. Tra piccoli. Piccoli e grandi. Torino si è sempre occupata poco o nulla dei grandi e piccoli Comuni che la circondano (per tornare al punto del dibattito su demografia e servizi, alimentato da Repubblica). Manco esiste uno stabile tavolo dei Sindaci della prima cintura. E quello che è successo negli ultimi dieci con la Città Metropolitana, che poteva cambiare prospettive e soluzioni di collaborazione, è tutto da verificare e valutare. Senza dire che la “Delrio” fa pena o schifo e che è stata drammatica. Molti che lo dicono sono quelli che sostengono che la 156 del 2014 abbia introdotto l’obbligo di gestione associata… manco è vero. E gli stessi che mettono in croce la DelRio appunto forse manco l’hanno letta.

Inciso 2. …Senza dire che la Città Metropolitana “non funziona”. Cosa non funziona? Cosa manca? Cosa si può cambiare? Cosa va cambiato? Manca personale? Manca il compenso per gli Amministratori? Mancano volontà di confronto e dialogo? Se non funziona, chi lo dice dica cosa manca.

Lavorare insieme tra Comuni vuol dire impegnarli – con norme chiare – a fare Unioni (o Comunità, montane, collinari, di pianura) serie e per tutti. Riapriamo il fronte del lavoro istituzionale. Aggregazioni serie e sveglie, con opportuna gestione politica e manageriale. La seconda manca. E come scrivevo, anche i Segretari comunali e di Unioni (montane e non) dovrebbero interrogarsi su questo ruolo manageriale e programmatico. Che per le Unioni montane, o le Comunità montane, è ancora più urgente, stante le competenze tecniche e gestionali, pianificatorie e di gestione.

Lavorare insieme è imperativo. Chi non ci crede è purtroppo fuori da una logica che vede tutti lavorare insieme per non essere travolti e spazzati via. La solitudine fa male, ce ne accorgiamo. Torino attivi un tavolo con i Sindaci della Cintura. E i Sindaci dei Comuni montani non abbiano paura di rinunciare a qualcosa per il loro campanile per lavorare con il vicino. Difficile certo. Difficilissimo. Spiegarlo ai cittadini poi.. Ma urgente e necessario. [Saluzzo con Terres Monviso è da tre anni un importante e positivo esempio di Città del fondovalle che scrive, monta, progetta, definisce, investe con cinque valli alpine, con Comuni limitrofi di pianura, e sceglie di non isolarsi, di dialogare, di operare. Modello vincente oltre divisioni di partiti o chi impone visioni ideologiche partitiche… piacerebbe smontare per via di ideologie. Piace sempre, pare sempre vincente, quando invece è perdente! Dividere e scegliere di stare da soli fa perdere, inganna, illude, distrugge ogni visione di futuro. Stare insieme fa vincere. Ai Sindaci che smontano le Unioni montane, uscendone con i loro Comuni, e succede anche nel Cuneese e nelle Terres Monviso, piuttosto che nell’Eporediese e nel Monregalese, diciamo chiaramente: non vai lontano, non sbagliarti, non fidarti di quel suggerimento di chi ti inganna, non farti fregare. Stai unito, sta insieme. Genera unità e coesione, non divisioni!].

Lavorare insieme non vuol dire perdersi e annullare storie o cultura. Che poi sono simili tra Comuni vicini, costruite nel tempo, divise da divisioni oggi inopportune. I confini amministrativi sono labili come alibi. I confini sono da sempre cerniere e così vanno intese.

Se le fusioni le togliamo di mezzo, le lasciamo volontarie, le permettiamo ovunque, volontarie, allora diciamo invece che lavorare insieme non è un tabù. Per tutti. Piccoli e grandi. Ma nel concreto e non solo su protezione civile o catasto. E già sulla Protezione Civile avremmo molto, ma molto da dire sul lavoro insieme.


Autonomia per le Autonomie

Si facciano insieme tra Comuni piani regolatori e investimenti. Asili insieme, come già anche previsto dai LEP, recentemente individuati. Si faccia insieme lo sviluppo. Lo scrive con chiarezza l’articolo 13 della legge 158 del 2017 sui piccoli Comuni.

Ma chi lo ha detto che Torino non può fare il PRG con Grugliasco e Rivoli? Chi ha detto che una intera valle non può partecipare insieme ai bandi della politica di coesione, di Interreg o del PNRR? Piuttosto chi non lo ha voluto, e ha mantenuto logiche di campanile, ha enormi colpe.

Autonomia differenziata e riscrittura di cosa sono e cosa fanno le autonomie. Senza la seconda, non c’è la prima.

Senza pensare a cosa fanno le Regioni, è difficile sapere cosa fanno i Comuni. E poi le Province, Comunità montane o Unioni (decidano, ma decidano! le Regioni cosa farne e come chiamarle) e quale fiscalità è veramente locale, degna di una autonomia.

Se di autonomie si parla, allora anche il sistema fiscale va impostato in modo da dare precisi cespiti e precisa organizzazione del fisco locale. Con perequazione e sostegno per chi rimane un po’ più indietro e invece indietro non deve rimanere. Vale anche per Torino e per i grandi Comuni, tra loro. Che se iniziano a parlarsi, iniziano a dire quello che sono. Milano (1500 euro di stipendio per pagarsi 31mq di appartamento!) pensa di essere autonoma puntando sui 15 minuti? E quella Città dei 15 minuti è pensata per chi sta dentro o per chi arriva da fuori? Come dialoga Milano dialoga con la prima cintura, cosa sono quei palazzi insieme che a nord come ad ovest uniscono pezzi di territori (sottraendo prato e aree permeabili, consumando suolo) sono i temi dell’oggi. Come Bergamo, Brescia, Udine, L’Aquila, Pescara, Palermo, Cosenza stanno con le loro valli. Con le aree agricole attorno, con le zone rurali, con i paesi. È un grande tema delle autonomie, come generano opportunità e quali sono le tasse in questi sistemi urbani, chi le incassa e come vengono spese. Quanto mette lo Stato per riequilibrare, consapevoli che finora, di autonomia fiscale, ve ne è ovunque ben poca.


Cosa fanno i Comuni

Fiscalità, funzioni, organizzazione.

Cosa fanno e cosa sono i Comuni. È ora di pensarci.

Ha senso che tutti i Comuni facciano tutto? Sotto i mille abitanti devono fare tutto? Ha senso facciano tutti i Comuni con meno di mille o cinquemila un PRGC? Ragioniamo in modo laico. Mettiamogli dentro tutto il personale e le risorse possibili. Finora non ne hanno, è vero. Ma dopo? Cosa succede dopo? Quella pianificazione e quella programmazione “di campanile” è utile alla collettività? La Francia ha differenziato le funzioni comunali in base alla dimensione di abitanti. Ma ha anche detto – partendo dalle geografie – che la Grande Nizza e la Grande Lione, attraverso una vera e seria Città metropolitana, fanno servizi e funzioni per tutti. Piccoli e grandi Comuni. Tutti fanno insieme. E tutti sono per tutti. Anche la fiscalità locale si informa di conseguenza. Lo diceva già in “Piccole Italie”, per Donzelli, il mio predecessore all’Uncem, Enrico Borghi, oggi Senatore. Una riflessione sul futuro dei Comuni e delle funzioni comunali che pochi, da sinistra a destra, hanno ascoltato. Troppo difficile e troppo poco mediatica. Perché riflessione europea, che condividiamo con altri Paesi vicini. Spagna, Francia, Germania, per dire. La centralista Francia non solo riduce le Regioni e in tre anni le accorpa. Ma fa una seria operazione per dire come stanno insieme 36mila Comuni. Che da 36mila centri di costo, diventano strutture avanzate per lo sviluppo locale. Perché hanno Sindaco e fascia, ma lavorano insieme in “Communauté des Communes” per dire cosa fanno e come danno i servizi.

In tutto questo, la digitalizzazione dei processi amministrativi e dei servizi ai cittadini fa la differenza. Finora nel nostro Paese abbiamo inteso la trasformazione digitale – dal cloud ai siti, a spid a IO – come fine a se stessa. Si fa perché è da fare, bella e tonica. Totalmente inutile invece è digitalizzare tanto per spendere un po’ di soldi di PNRR (tantissimi, troppi per rifare i siti internet). Fondamentale – come ci dice da sempre Giovanni Vetritto, Direttore della Presidenza del Consiglio dei Ministri – se questa digitalizzazione spinge i Comuni a lavorare insieme, li agevola nel lavoro insieme. Fini. Pensare ai fini della spesa. Digitalizzare per far lavorare insieme. Il primo e solito esempio delle banche dati, per la richiesta on line della carta d’identità nel Comune vicino al proprio… È chiaro. Banale. Perché poi viene il resto. E lavorare insieme, unire, vuol dire digitalizzare i processi. Poco interessa una sede fisica, se il cittadino e l’impresa hanno il filo diretto con la PA on line. Può non piacere ma siamo già piuttosto indietro. Può non piacere a qualche dipendente, può non piacere a qualche Segretario o Dirigente. Ma è necessario.

Lavorare insieme vuol dire unire veramente. Gli uffici tecnici ad esempio. Al posto di qualche tecnico – che, guarda un po’, fa il geometra esterno al comune, poi ha un incarico in un Comune vicino, e fa poi qualche progetto nella valle vicina ed è anche Consigliere o Sindaco… – costruiamo solidi uffici tecnici per un’Unione (montana o non) da 10mila abitanti. Con geometra, ingegnere, architetto, geologo. E se non bastano 10mila abitanti, scaliamo su 15 o 20mila. Togliamoci ogni alibi di inefficienza, piuttosto che di ricorso a società esterna per fare quello che il campanile da solo non è in grado di fare. Togliamo qualche guadagno facile a qualche società di consulenza che sta a 100, 200, 300 chilometri. Pool di professionisti in un’Unione, che agiscono per tutti i Comuni dell’Unione. Uno, due Segretari nell’Unione, che agiscono per tutti i Comuni dell’Unione (almeno non hanno comuni a 50km di distanza… e li concentrano in una o due valli). È un processo manageriale, prima ancora che politico, riorganizzativo, che pochi hanno centrato. Ma vale la pena di percorrerlo, istruirlo, provare a darsi delle regole e dei numeri.

Lavorare insieme.


Cosa fanno le Circoscrizioni

Un tema enorme. Si apre guardando a come lavorano insieme le Città. È una conseguenza della riorganizzazione delle Città. Cosa fanno e cosa sono.

A Torino si chiamano Circoscrizioni, a Roma Municipi e via cosi.

Dipende, la loro utilità, da quel che fanno. E che devono essere. Presidenti e organi sono pagati. A differenza delle Unioni di Comuni e delle Unioni montane dove lavorano per niente, manco un rimborso spese. Stessa situazione nelle Città metropolitane. L’accanimento con poltrone e costi della politica, ben mosso da qualche partito politico che ancora ne gode, ha prodotto anche questo.
Ma se le Circoscrizioni servono, teniamole e diamogli senso. (E mettiamo i compensi, come quelli dei Presidenti di Circoscrizione a Presidenti di Unioni, Unioni montane, Comunità montane, senza cadere nell’orda della demagogia stupida di chi vuole dare niente a tuti e già ci è riuscito). Se le Circoscrizioni servono, siano utili nei processi di unificazione di servizi e funzioni per Torino e le Città limitrofe. Ne hanno mai parlato i Presidenti delle Circoscrizioni? E di cosa parlano altrimenti!?!

Se le Circoscrizioni servono, siano organizzatori di sviluppo locale. Si rivedano le loro funzioni. Se Torino (o Milano) + Settimo + Venaria + Collegno + San Mauro + Rivoli + Grugliasco + Orbassano + Nichelino + Trofarello + Moncalieri lavorano insieme e arrivano a 1,2 milioni di abitanti in una vera unione, siano le Circoscrizioni snodo di opportunità e servizi ai cittadini.


Città Metropolitana, il voto è l’ultimo dei problemi

Nel dibattito sul futuro di cosa sono le Autonomie, ci si imbatte nelle Città Metropolitane. E si fa presto a dire che quella di Torino non funziona. Troppo grande, da Torino a Sestriere. Sarà. Ma ho già detto: se non funziona, diciamo cosa non funziona. Cambiamolo. La Città Metropolitana di Torino ha tre grandissimi meriti, già nel palmares: aver costruito uno Statuto veramente con in Sindaci, con tutti i Sindaci, in una serie di lunghe e corpose assise. E aver definito delle “aree omogenee” che sono la base per il lavoro insieme tra Comuni. Mettono insieme grandi e piccoli centri, Comuni di pianura, di montagna, di collina. Aree rurali, interne, montane. Un gran bel lavoro di riscoperta delle geografie. Il terzo merito è avere costruito un Piano Metropolitano di intervento e di azione, che fa seguire investimenti e scelte. Devono seguire. Sono tre meriti che permettono di dire che non è così da buttare. È da consolidare e si muove sulle gambe di chi la costruisce e la genera. Ogni giorno. Personale, cantonieri, Politici. Dirigenti. Direttore e Segretario generale. Fa un lavoro di cucitura. E ora riparte. Riparta dalle Green Communities nelle aree omogenee, dalla visita (pastorale? e che c’è di male se prevede ascolto) del Sindaco Lo Russo (lui!, non deleghi!) ai Sindaci delle Aree omogenee riuniti. Faccia un piano di azione che già Suppo & Co. stanno generando. Si vince o si perde insieme. Alleare i Comuni non è semplice. Rimpiangere le Province ho spesso detto che non è sempre soluzione.

Come quelli che dicono si faccia la vera Città Metropolitana, Torino e prima cintura. Istituzionalmente tiene? Organizzativamente? E fuori che produciamo? L’ex Provincia di Torino senza Torino?

La questione istituzionale organizzativa ha emblema nazionale in Torino e in questa Città Metropolitana da 312 Comuni. Se ascolti, e vanno ascoltati, i 312 Sindaci, ti proporranno una idea istituzionale diversa rispetto a cosa fare del futuro della Città Metropolitana. Un po’ come il dibattito su cosa fare delle Regioni.

Le alternative sono tante.

  • Città Metropolitana così com’è. Con Torino e 312 Comuni. Consolidano le aree omogenee e all’interno di queste (intese quali ambiti territoriali ottimali) si fanno “sub-ambiti”, le Unioni, con legge regionale. E così, il percorso di ambiti e sub-ambiti si estende a tutte le Province piemontesi
  • Città Metropolitana con Torino Città e i 10-12 Comuni della prima cintura torinese. Cosa facciamo poi degli altri? Una provincia da Chieri a Ivrea passando per Pinerolo, Susa, Lanzo, Rivarolo?
  • Si torna alla Provincia di Torino, con 312 Comuni. Così come ci sono altre 7 Province piemontesi.
  • Si tiene la Provincia di Torino ante 2014, che si somma a tre province (dunque i quattro quadranti del Piemonte) che uniscono le altre 7. Un disegno non nuovo, ipotizzato già nei primi anni del ‘1o.

Sono solo quattro ipotesi, se ne sommano altre quaranta o cento. Ragionare di questi temi non è tempo perso.

Poi servono soluzioni normative, modificare le norme vigenti, nazionali e regionali, attuare il titolo V. Difficile. Poco remunerativo in termini di voti per chi ha responsabilità politiche e si gioca questa o quella legislatura? Può essere. Di fatto oggi il sistema istituzionale è debole e soffre. Rafforzarlo è impegno dello Stato con tutte le sue componenti. “Eliminare gli ostacoli”, direbbe il Presidente Mattarella, per il pieno funzionamento delle Istituzioni della Repubblica.


Torino (e non solo) Città alpina

In questi scenari, stanno altri temi. Riprende quota il dibattito, non nuovo, rispetto all’utilizzo di impianti per le Olimpiadi invernali del 2026 messi a disposizione da chi li ha già, Torino, per chi invece li dovrebbe costruire, Cortina. Una operazione virtuosa certo, ma se le Olimpiadi 2026 devono essere qualcosa di molto diverso rispetto al passato, non è solo per l’uso di strutture già pronte in tre angoli di montagne. Sul piano delle intese tra Comuni, c’è molto da studiare. Il punto è fare delle vere Olimpiadi delle Alpi, che uniscano Milano, Torino, Venezia, Verona, Brescia, Bergamo, alle loro valli (le valli che cadono su di loro) in modo diverso dal passato. Con una consapevolezza culturale e storica prima di tutto, con un legame che finora non è mai esistito tra grandi città del fondo valle e località alpine dove si svolgono le gare. Torino ha il merito centrale di questa incompiuta. Drammatica incompiuta non capita da nessuna delle Amministrazioni torinesi venute dopo il 2006. Snobbato ogni rapporto. Bastava che apparentemente la Crocetta fosse proiettata in Via Lattea o a Bardonecchia. Un fallimento. Ma Milano rischia di fare il più sonoro e drammatico bis se non capirà che il punto non è come sta insieme a Cortina, e al trionfo della perla delle Dolomiti, che certo non ha bisogno di luci e riflettori. Bensì, il cambio di passo vero lo si fa con Olimpiadi invernali delle Alpi che mettano insieme le valli che faticano, che hanno famiglie che vogliono restare, che hanno bisogno di medici di base e di asili nido e nelle quali i negozi chiudono e lo spopolamento continua, con le realtà urbane, nelle quali le periferie sono in apnea e le ztl devono smetterla di pensare di avere appendici ludiche sulle piste di pittoresche località alpine. Dunque al netto di ogni retorica, servono intrecci, scambi, ben oltre l’uso di trampolini e piste da bob. Servono scambi e relazioni, Città che capiscano cosa sono le valli, le montagne, i paesi insieme di una o più Comunità montana, e scelgano interazione e flussi. Se Milano sceglie solo Cortina, Venezia le Dolomiti, Torino la Via Lattea, quali destinazioni del risposo, dello svago, dello sci senza neve e dello shopping, le Olimpiadi, ovunque si celebrino, servono a poco.


Per concludere (o iniziare) un ragionamento

Per punti:

  • La demografia problematica di una grande Città che diminuisce negli abitanti e in dati economici, è un problema che Torino condivide con altre cento Città italiane
  • Il modello torinese non è del tutto in crisi, o almeno sarebbe riduttivo dire “crisi” senza argomentare e definire nuovi spazi di dialogo
  • La demografia – mi insegna Giampiero Lupatelli – è strettamente collegata alle geografie
  • Il modello organizzativo della grande Città capoluogo – servizi, urbanistica, opportunità di insediamento, ecc – non può prescindere da un nuovo legame con le grandi Città che la circondano. In Torino vi è un esempio, ma per tante aree metropolitane italiane, vale la stessa cosa
  • Su trasporti, urbanistica, servizi di anagrafe e stato civile, protezione civile, gestione del ciclo dei rifiuti – come è già successo almeno nel Torinese per la gestione del ciclo idrico – è imprescindibile un legame più forte tra Torino Città e le altre Città limitrofe e contigue. Subito un tavolo permanente e mensile tra i Sindaci
  • Consolidare il sistema istituzionale richiede ragionamento, confronto, spazi, dialogo, e poi sintesi politica
  • Riscrivere il Testo unico degli Enti locali in questo Paese non è un tabù e partire da una definizione dell’Autonomia differenziata delle Regioni senza parlare di Autonomie (e fiscalità, e funzioni, e organizzazione, e ruoli) non è possibile
  • Consolidare il sistema istituzionale, a partire dal Piemonte, così peculiare e così diverso da altre Regioni (ad esempio Toscana ed Emilia-Romagna) è necessario. Avere enti troppi piccoli che non sono tra loro in relazione, stabile e continuativa, non occasionale, non è sano e non consente crescita.
  • Per lavorare insieme, i Comuni (piccoli tra loro, piccoli con grandi) hanno bisogno di stabilità, certezze normative, finanziare, non occasionalità del bando o del finanziamento. Il sistema istituzionale sano e solido si regge su scelte e non su questo o quel progetto. Non bastano Strategia Aree interne piuttosto che Strategia delle Green Communities o piano dei borghi (anzi!): sono strumenti, di intervento, di ripensamento, di riorganizzazione, che si devono tradurre in sistema istituzionale percepito e riconosciuto dai cittadini quale forte, stabile, capace, degno di essere finanziato.
  • Il modello piemontese delle Unioni montane non è da buttare come non è un fallimento la Città metropolitana di Torino, o le Province post-riforma 2014. Sarebbe assurdo dire che tutto è nero e che prima di certe scelte fosse stato tutto bianco. Stupido. La solidità delle persone che lavorano in queste Autonomie è credibile e netta. Va riconosciuta fino in fondo. Che poi vi siano molte cose da correggere, è altrettanto vero. Con una analisi approfondita e non superficiale.
  • La necessità di “Capitale umano” è la necessità di interazione generazionale tra personale politico e tecnico, amministrativo degli Enti. Non è solo della PA. Mi colpì quanto una grande, grande azienda di ingegneria e non solo disse qualche mese fa a un convegno, per bocca dell’AD: abbiamo assunto, d’intesa con le Università 1.200 giovani. Tutti. Chissà poi quanto li tengono, quanto li pagano, quanto sono soddisfatti. Di certo per la PA assumere è complesso e non sempre vi sono adeguati incentivi per restare. Tema complesso, nel quale non mi addentro. Vi è un preciso Ministero che da anni lavora sul reclutamento e sull’incrocio di cervelli, preferisco “capitale sociale” per dare qualità e opportunità alla PA. Riusciremo a portarli anche negli Enti locali?
  • Il problema dei Comuni piccoli che di fatto sono “tutti all’esterno” va affrontato. Non ci si può girare dall’altra parte. Se va bene così, ok…
  • Il tema centrale resta sempre e solo uno. Dare qualità della vita, colmare le disuguaglianze, superare sperequazioni nell’organizzazione dei servizi, sostenere chi rischia di rimanere indietro. È il compito più difficile e più bello della Politica, delle Istituzioni. La PA e le Autonomie locali in particolare possono essere disegnate per crescere in queste necessità. Che sono ancora diverse e più articolate rispetto al “combattere lo spopolamento nelle zone montane”. Non fermeremo noi i flussi migratori, né nel Mediterraneo, né nella terra tra i mari, tra il Mediterraneo. I flussi ci sono, verso le Città e verso le campagne. Li analizzano sociologi, antropologi, geografi. Ne abbiamo bisogno di quelle analisi, per evitare di sbagliarci e di illuderci, anche di avere noi il futuro in mano, nelle scelte della Politica, delle Istituzioni, tantomeno dei Comuni o di qualche facile consesso. Ripensarci si, sapere di poter risolvere tutti i problemi della collettività e della complessità, non è per noi.
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